L’anfora d’oro dal cuore d’argilla

In torteria oggi una calma grassa e goduriosa.

É arrivato un nuovo cliente, Valère, sudafricano, la pelle che sa di terra rossa mista a mieli pastosi e soli che tramontano senza fretta.

Il locale oggi é semivuoto, novembre sta donando ai torinesi giornate saporite di aria dolce, zuccherosa, e di luci che mettono energia e vita, le gambe vogliono camminare veloci, allontanarsi indenni dalle coltri autunnali, godere dell’aria aperta, dei colori lussureggianti del Valentino, dei passi che sentono il fluire luminoso e lento del Po.

Valère sceglie la torta più semplice, la torta allo yogurth, e questo mi racconta già molto di lui. E molto mi raccontano gli occhi profondi, con taglio orientale, scintillanti, le mani senza sofferenze, che lo descrivono studioso, forse uno scrittore, un antropologo o un medico.

Non glielo chiedo, un patto di riservatezza si stabilisce subito tra noi, ma resto curiosa. Viene da Parigi, ha sposato una francese, ha due bellissimi bambini, così dice, ma non ho motivo di dubitarne, e una vita divisa tra l’Europa e le radici africane.

Pronuncia appena Il nome del suo paese d’origine – indovino dietro il grande nodo delle radici strappate con dolore – gli occhi di luce diventano d’ombra – gli offro una tisana all’arancia, cannella e anice stellato. Gradisce, come tutti gli animi gentili.

Mi racconta di anni intensi, fuori dall’ordinario, intrisi di esperienze che gli europei definiscono animiste, gli europei con la loro perniciosa abitudine di separare anima e corpo, spirito e carne, e la necessità di coltivare quel lato razionale che ti rende un ottimo accademico, ottimo lavoratore, ottimo risolutore, una persona socialmente accettata e stimata, ma soffocata nei suoi afflati più primordiali.

Mi racconta del suo amore più grande – intuisco non sia sua moglie, lui non puntualizza, lascio che il silenzio preservi il suo pudore – e la definisce in una maniera che mi commuove: un’anfora d’oro dal cuore d’argilla,
alludendo al valore spirituale della fanciulla, un’anfora che accoglie morbida e capiente, fatta di materiale prezioso, ma dal cuore fragile, da preservare e proteggere.

Valère sembra un vecchio saggio, ma guardandolo dimostra a malapena 35 anni, però ha un animo antico, la sapienza degli avi, il sorriso pacato di chi sa dove lo conducono i suoi passi.

Mi lascia un libro, non un regalo per me, ma per la torteria, al libero accesso dei miei clienti. Amo questo genere di generosità, mi dà la misura di chi ho di fronte.

Racconti mitologici, il primo dio che incrocio é Ares. Mentalmente associo la lettura ad alcuni avventori della torteria.

Valère mi saluta, ma mi chiede di rifare la stessa torta dopo un mese. Sarà ancora di passaggio a Torino e tornerà per godere della torta allo yogurth più buona che abbia mai mangiato.

Sorride, ora sembra avere vent’anni o poco più, ha la giovinezza delle anime fresche, senza rughe, diventa bellissimo, un Ares africano.

Marcello

(Racconto ambientato in torteria)

dc3be0a8a1_2091049_med[1]Marcello venne a salutarmi. Avevo aperto da poco la serranda, ma lavoravo da ore in cucina. Stavo preparando un dolce di crema e amarene. Il preferito di mio padre e dovevo prepararlo a tutti gli uomini a cui volevo bene e che in qualche modo mi attraversavano la strada: fratelli, amici, amori, vecchi zii, il signore finto burbero del quinto piano. E per Marcello.

Non lo vedevo da mesi e da mesi non preparavo la torta dei miei uomini, ma quel giorno sapevo che un uomo importante della mia vita sarebbe passato in torteria.

Arrivò, il maglioncino in filo blu un po’ sgualcito, la T-shirt grigia che occhieggiava dallo scollo a V, i capelli ricci e buffi, ribelli senza troppa convinzione, un po’ disordinati, come per caso più che per anarchia, il sorriso accennato, quella timidezza che lo rendeva vulnerabile e lontano dalle mire delle donne.

Sarebbe partito dopo un’ora, giusto il tempo d’un caffè e una fetta di torta. Ci sedemmo, tagliai una fetta generosa di quell’oro morbido avvolto in una pastafrolla così scioglievole, le amarene dolci, che ingolosivano lo sguardo e il palato, ne presi anche io, usai i piattini in porcellana inglese, quelli del servizio “buono”, Marcello valeva la pena.

Mi raccontò che sarebbe tornato al paese, dopo 15 anni che non tornava più alla casa paterna. Proveniva da un paese costruito in pietra, arroccato tra collina e mare, circondato da ulivi e piante di capperi, quel sud così profondo da apparire un mito letterario. Non vedeva sua madre da 15 anni, eppure quanto l’amava, quante gelosie aveva patito per lei da bambino. E suo padre, che aveva lasciato adulto ma ancora giovane, le ultime foto lo ritraevano con una lunga barba bianca, gli stava facendo lo scherzo di invecchiare.

Non sapeva perché mancasse da così tanto tempo da casa, non sapeva spiegarselo: aveva lasciato che il tempo gli scivolasse addosso pigro e molle, senza mai decidere di partire. Ma ora era arrivato quel momento. Il desiderio di accarezzare la madre in volto, chiamarla in quel modo buffo che permetteva solo a lui, aiutarla nella spesa al mercato, prendere il caffè con suo padre in veranda, la vecchia poltrona in midollino un po’ sfondata, se ancora c’era, e poi la sigaretta come rito da consumare tra uomini, con sua madre che fingeva di sgridarli, che affumicavano casa e polmoni, via via, andate fuori, e suo padre fingeva di offendersi, si alzava come per andarsene, poi tornava lesto a darle un bacio sul collo e rideva come un ragazzino.

Marcello raccontava, un po’ ricordava, un po’ immaginava, intanto mangiava la torta e mi guardava come ti guardano gli uomini che t’hanno conosciuto davvero e hanno fatto la sciocchezza di lasciarti andare, di piegarsi alla tua indole di gitana sempre inquieta, sempre in cerca di una nuova casa.
Forse era passato per dirmi qualcosa d’importante, ma non lo disse.

Però mi pareva che volesse portarmi con lui, ma io dovevo preparare tante torte, approfittavo della sua timidezza per fingere di non capire, tanto lui non avrebbe mai chiesto, mai indagato. Dopo che se ne fu andato, impastai altra frolla, gli occhi mi pungevano, forse ero troppo stanca, una lacrima volle scendere per forza su quel viso scanzonato

Amelia De Simone – settembre 2015

Anna

sofia_loren_strip-600x450[1]Anna si stava rivestendo. Mentre si infilava i collant, cercava di non fargli vedere che aveva un buco in punta. Toglie ogni magia, un buco alle calze é un marchio di infamia, ti toglie sensualità ed eleganza, ti rende brutta e sconcia.

Lui nemmeno se ne era accorto, e anche se lo avesse visto, non ne avrebbe fatto un dramma. Lei era sempre così impeccabile, i suoi tailleurs così professionali, le collane ricercate, gli orecchini en pendant, la biancheria fine e ricamata, la pelle profumata, sempre fresca di parrucchiere, rispetto a lui, che era tanto bohemien, era di un altro mondo.

Poi era così bella, le avrebbe perdonato qualsiasi cosa, un buco alle calze, un ritardo all’appuntamento, una promessa non mantenuta, persino un tradimento fugace. D’altronde Anna é una donna troppo carnale per poter appartenere a un uomo solo, lui lo sapeva benissimo, godeva dei suoi favori e dell’amore fervente e devoto di lei, sapendo che la fedeltà era un bisogno intimo di Anna, non suo. Lui la vedeva nella sua vera essenza, e l’amava esattamente così, non l’avrebbe cambiata d’una virgola, pur se gli toccava ingoiare fiele a ogni sua “distrazione”.

Anna finì di rivestirsi, sentiva la pelle dell’alluce sfregare contro la scarpa, ma avrebbe ingoiato cianuro piuttosto che confessare l’odioso incidente e col sorriso delle donne padrone del loro destino, lo salutò, gli diede un bacio fugace, quello che danno le amanti sazie dopo ore di amore intenso.

Quando gli diede le spalle, lui notò una smagliatura lungo tutta la gamba, sorrise e tacque, sapendo quale dramma ne avrebbe fatto lei, se lo avesse saputo. Quanto l’amava, tutta fianchi e testa, tutto seno e bontà, tutta etica e fissazioni stupide. Quanto sei bella Anna, mi togli il fiato

Amelia De Simone – agosto 2015

Mio padre

11881027_10207120709803570_2103375064_n[1]Mio padre s’è smarrito nella terra dell’indefinito, degli scenari che cambiano in continuazione, dei viaggi e traslochi che ogni giorno gli affaticano la mente, dei figli che diventano osti o cantinieri, dottori o signori di passaggio, di mogli che diventano generali, di camere da letto mobili, che non danno più conforto e sicurezza: mio padre é voluto andare in un teatro, dove gli cambiano continuamente le scenografie.

Si disorienta e con la tenacia dei bimbi piccoli chiede dove sia, perché sia lì, chiede di essere portato a casa sua, la sua vera casa, angoscia e sgomento i suoi tignosi compagni di viaggio.

Mio padre ha fatto un buon lavoro se ora i suoi figli lo lavano, lo vestono, lo imboccano, lo prendono in braccio, se lo calmano nelle ore insonni e agitate della notte.

Però é anche un po’ farabutto: ci ha buttato addosso una croce: non siamo pronti, non sappiamo capire che non tornerà mai più l’uomo sicuro e deciso di prima, che non sarà più in grado di camminare da solo e formulare un pensiero logico.

Io mio padre lo amo, ma lo odio anche un po’, non si fanno questi brutti scherzi.

Non si accarezza in viso una figlia durante la veglia notturna e le si chiede: “chi é sta figliola?”

Io mio padre voglio metterlo nel mio sogno e voglio farlo guidare, andare a fare la spesa, prendere il caffè al suo bar preferito. Io non ci credo che mio padre si sia trasferito per sempre nelle lande dei pensieri disconnessi.

É mio padre, non é possibile

Lui dà, io prendo

Sono fortemente indebitata. Devo restituire tanto, tantissimo.
Il mio creditore é un signore un po’ snob, se ne sta ai piani alti, anzi altissimi.
Io sono abituata a bussare alla sua porta quando ho bisogno, e succede spesso, ma solo quando ho grattato il fondo del barile, e lui tutte le volte mi apre: non mi sorride, mi guarda un po’ indagatore, non fiata una sola parola, annuisce, gli occhi buoni, i capelli bianchi, sciolti sulle spalle, un vecchio signore eccentrico, ascolta le mie esose richieste e poi tira fuori dalle sue borse quanto mi occorre.
Lo ammetto, io approfitto di tanta bontà, non so nemmeno perché questo signore mi dia tanto credito, ma finché ce n’è, io prendo, non mi faccio mica prendere dai sensi di colpa.

Devo dire che ogni tanto mi arrabbio con lui, perché continuo ad accumulare debiti, vorrei che lui non continuasse a versare, che mi scacciasse dalla sua casa, magari risentito, accigliato, urlante e minaccioso.
Invece mi accoglie a braccia aperte, quegli occhi così grandi, liquidi come il mare, ci si perde dentro. Io vorrei che ogni tanto Dio pretendesse da me atti di fede, ma lui crede in me, e tanto basta. Lui dà, io prendo.

Amelia De Simone – agosto 2015

Il segreto di Proust

Sono seduta al tavolo di marmo. É grande, almeno 10 posti, freddo, immacolato. I mobili della cucina sono in muratura, una grossa e panciuta cucina economica spadroneggia nella stanza, una cappa enorme, fuliggine ai muri, cesti ricolmi di frutta e uova di giornata, vasi di miele e farine fresche di mulino.

La cuoca é una signora rubiconda, senza collo, un seno che affatica le spalle, un’ allegria che deve soffocare a dispetto della compostezza, mi detta piano la ricetta: il padrone di casa ha ordinato che mi svelasse il segreto. Lei appare un po’ gelosa, ma vince la sua ritrosia per l’animo generoso che tracima da quegli occhi buoni, e spiega il segreto di questi dolcetti così semplici e così buoni, che hanno reso celebre il signore di casa, il signor Proust. La cuoca mi allunga un cartoccio: c’è dell’ottimo burro di montagna: “vedrà” mi dice “questo é il vero segreto, altro che gobbetta” e ride gioiosa.

Io la ringrazio, saluto il padrone di casa e poi corro a casa a trascrivere la ricetta nella mia raccolta. Forse avrò anche voglia di provare a farle, chissà

Fisarmonica o chitarra?

Un uomo dai capelli indomiti, il naso fiero degli antichi soldati greci, abbracciava con lo sguardo la sua donna, i lunghi capelli rossi, gli occhi verdi, le braccia e i seni floridi, i fianchi così fertili, che ingentilivano qualsiasi occhio d’uomo, la guardava attraverso le nubi di fumo che evaporava dalla bocca carnosa.

La casa era all’ultimo piano di un caseggiato anni ’70, un loft riattato con poltrone e lampade design sapientemente abbinate a mobili antichi, libri che denotavano sensibilità letterarie raffinate mescolati a tomi accademici, fiori di lavanda essiccati alle finestre avvolgevano l’aria, la penombra rendeva l’uomo e la donna affascinanti, seppur nessuno dei due fosse particolarmente bello.

Lei era seduta sul bordo di una sedia, sedeva sempre così, in punta, come i bambini, eppure non dava mai l’idea di aver fretta di rialzarsi o di esser scomoda, solo un vezzo infantile, era distratta, l’aria dolce di una primavera esplosa all’improvviso la rapiva, e la musica che arrivava dal basso acuiva il suo smarrimento felice.

“Senti, é una fisarmonica!” La sua voce di carne, bassa, gravida di promesse, aveva l’eccitazione dei bambini quando indovinano un rompicapo. Lui, tendendo l’orecchio, rispose che no, era una chitarra.

Una chitarra, lei scosse la testa: “che chitarra, senti, é una fisarmonica!” Risero, coscienti di aver rovinato il romanticismo del momento, e che anche quello sarebbe diventato magìa nel ricordo

Amelia De Simone – giugno 2015

Accidenti a lei

Avevo una tale irrequietezza in quelle vene,  e quell’uomo non sapeva capirle e tenerle a bada, d’improvviso mi porgeva parole ora troppo molli,  ora troppo sanguinose, e  rimaneva stupito dei miei calci,  dei miei colpi di reni,  non capiva mai perché mi imbizzarrissi tanto.

Non poteva far nulla, se non starsene sdraiato sul divano,  a fissare il soffitto,  senza sofferenza,  solo un po’ di senso di inadeguatezza,  era così difficile da capire,  da sostenere, ma quant’era bella,  accidenti a lei!

 

Amelia De Simone

Il dr. Kramer

Il dr. Kramer è il mio psicologo. Credo che abbia scelto questo mestiere perché ha mani troppo belle per imbruttirle facendo il muratore, ad esempio. Conosco a stento il suono della sua voce. Una voce profonda, calma, che sa di mare d’estate nel pomeriggio inoltrato, quando l’acqua è cristallina e calda e raccolta in sè. Mi porge la mano, caloroso, leggermente affettuoso, mi saluta e poi cominciamo la seduta. Mi siedo in poltrona (non esistono più i lettini, sono un’invenzione cinematografica!) e incomincio a raccontarmi. A volte ho cose interessanti da riportargli, vedo che lui prende appunti, sono una brava paziente. Altre volte invece devo inventarmi qualcosa, mi dispiace che lui non rimanga colpito, diamine non posso deluderlo così. Allora mi invento cose turpi, o grandi disagi emozionali. Riesco persino a piangere, con lacrimoni silenti, senza singhiozzare, non voglio metterlo a disagio e poi è tremendamente inelegante. Mi porge un fazzolettino, è partecipe, ma non parla. D’altronde che deve dirmi? “Continui, così prendo appunti”? Altre volte gli dico la verità, mi metto a nudo, ma mi pare una cosa sconveniente, io vado da lui solo perché parlare ad alta voce in strada mi procurerebbe qualche guaio. Vorrei che lui mi dicesse, proprio quando racconto la verità più vera: “Signora, perché inventa? Io son qui per aiutarla, perché non si fida di me?” E vorrei rispondergli” Perché non mi fido degli uomini, ho scelto lei e non una donna per continuare a non fidarmi degli uomini, il piacere masochista prolungato” Credo che il dr. Kramer abbia un lungo lavoro da fare con me. Ha appena comprato un taccuino nuovo, dedicato solo a me. Amelie, bugiarda impenitente.

La modella medievalista

Senza titolo 1Ho appena aperto, la saracinesca ancora mezza chiusa e Dalila arriva.
É la figlia della mia migliore amica, una grande amica, vera, leale, intuitiva, intelligente, ma come mamma forse non é stata tra le migliori.
Dalila é una bellissima modella e ha la passione della fotografia in bianco e nero. Sfila per maisons indipendenti, non é sulle riviste patinate di mezzo mondo, ma sulle maggiori italiane spicca per quegli occhi orientali e la pelle scura, da principessa giordana, il collo da cigno e il sorriso timido.

É divertente, ha un senso dello humor tutto suo, parla velocissimo, spesso devo farle ripetere le cose, ed é una testa brillante: laureata in storia, sta concludendo un progetto che la rende tra le medievaliste più accreditate.
Però provate a chiederle l’ora, guarderà l’orologio, le inintelligibili lancette e darà una risposta poco sicura e approssimativa. L’adoro. É la figlia che avrei voluto, se solo avessi avuto la testa di farne o almeno un compagno che ne valesse la pena, ma mica vogliamo parlare di me

Arriva trafelata, ha appena avuto una discussione con sua mamma ed é arrabbiata, ma non sa sfogarsi a parole. Io lo so perché la leggo come un libro aperto. Non le dico nulla, le do un bacio lieve sulla guancia, so che il contatto fisico deve cercarlo lei, altrimenti si infastidisce.

Mi siedo con lei al bancone e apro il vaso delle meringhe. Non esiste un dispiacere di Dalila che non si dissolva davanti a una meringa . All’inizio non ne prende, troppo turbata, poi una mano scivola nel vaso e ne mangia una. Alla terza mi sta raccontando del motivo della discussione. Cerco di rasserenarla e di minimizzare questo suo piccolo dramma. Mi mette un braccio sotto il mio, mi stringe con una mano, e mi dice che mi vuol bene. Mica a parole. Con quei bellissimi occhi orientali.

Liberamente ispirato a mia figlia Dalila

Amina

Liberamente ispirato a una cliente incrociata a Il Camaleonte Piola.

Oggi é un giorno di festa, ma lo sapete io non chiudo mai la torteria, tranne al mercoledì e giusto 15 giorni all’anno per andare….ve lo dirò poi dove vado ogni anno, sempre lo stesso luogo, che é un posto che racchiude tutti i luoghi del mondo, ma ci vorrebbe un intero libro per raccontarvelo, e poi forse avrete imparato a capirmi, non racconto molte cose di me, dovete aver pazienza ed attendere che mi schiuda, come un uovo.
Ho avuto molto clienti, nessuno era frettoloso, d’altronde é scritto all’ingresso: Gentile cliente insieme a torte e bevande calde ti farò dono d’un pezzo importante della tua vita, il tuo tempo. Godilo insieme alle dolcezze della torteria. Sii premuroso verso me e verso te stesso, e prendi una fetta di serenità.
Li osservo con nonchalance mentre leggono, prima un po’ stupefatti, poi piacevolmente convinti dal tono pacifico del cartello, poi quando incrociano lo sguardo e ascoltano la mia voce morbida, suadente, si convincono di essere capitati nel posto giusto e si siedono senza fretta.

Oggi é lunedì e tutti i lunedì arriva Amina. É una ragazza marocchina bellissima, i capelli neri, ricci, che si arrampicano verso l’alto, divisi al centro in due ciocche ribelli, alta, longilinea, gli occhi così grandi che ci abiti al primo sguardo, il carbone delle pupille accentuato dal kajal, le fosse sulle guance, un sorriso che magnetizza gli sguardi.
Amina é incontenibile, appena entra mi salta al collo, mi riempie di baci e ruba un biscotto dai contenitori, dà un morso, poi me lo porge perché anch’io ne prenda un po’, poi mi slega il grembiule, e incomincia a parlare. Quanto parla Amina! Parla e ride e poi mi abbraccia e poi ancora mi bacia le guance, e mi dice: tu sei la mia mamma vera! Mi saltella intorno, io fingo fastidio, intanto controllo che della sua torta preferita ce ne sia ancora in abbondanza, ne spolvera due fettone gigantesche, ha gli occhi felici, é la voglia di vivere in persona, la sua allegria mi contagia, mi fa bene al cuore.
É ora di tornare a casa, mi dice: Mamy, a lunedì, mi stampa un bacio sulla fronte e scappa via, una folata di belle cose la segue e un’altra resta con me.

La ragazza dai capelli rossi

10524573_906735542675072_4346514141005848600_n[1]Stasera sono distrutta. È stata una giornata molto faticosa. Ho avuto una commessa di cento cannelé e cento tortini al cioccolato, e ho avuto un po’ di via vai ai tavoli. La mia cliente preferita di oggi è stata una ragazza dai capelli lunghi e rossi. Non conosco il suo nome, è venuta varie volte in torteria, attendo di entrare in confidenza per chiederglielo.

Bellissimi occhi enormi e tondi, la pelle eterea, da bambola di porcellana, bocca al succo di ciliegia, alta e forse questa altezza le ha provocato quella timidezza infinita che la fa arrivare in torteria sola, restare le ore a tu per tu con una fetta di torta, la sua moleskine, a scrivere scrivere scrivere. Prende sempre la stessa torta cioccolato e pere, non è curiosa di altri gusti, e sempre la stessa tisana ai frutti di bosco. Si guarda intorno di sottecchi, ma non cerca mai la complicità negli sguardi degli altri avventori, preferisce rimanere nella sua nicchia. La guardo da lontano, le rivolgo un sorriso benevolo, anche quando non mi guarda, le persone hanno bisogno di affetto anche e soprattutto quando non lo sanno, e lei ne ha un profondo bisogno.

Oggi insieme alla torta le ho portato un segnalibro con una poesia di un’autrice profonda ma sconosciuta al pubblico, Amelìe, si somigliano le due, si indovinerebbe un legame di sangue. Ma quante illazioni faccio, più dei granelli di zucchero che uso tutti i giorni. Sono una pasticcera pasticciona, che si fa troppo gli affari degli altri, anzi forse più che pasticcera, dovrei dire che sono un’indagatrice dell’anima, che scava nella mente e nel cuore delle persone, mentre sforna bignè, tortine e pastine da tè.

La ragazza legge la poesia, le si fanno gli occhi lucidi, è una poesia d’amore, chi sa qual è la sua sofferenza nel cuore. Si alza, infila un cappottino sottile, una sciarpona glicine e un basco blu elettrico. É deliziosa, splendida, senza consapevolezza, la grazia delle anime lucenti. Scarabocchia un grazie su un tovagliolo, paga senza guardarmi in viso, ma so che le ho dato un po’ di calore in petto. Arrivederci a presto

Liberamente ispirato a mia nipote Federica Rapacciuolo.

AAA cercasi editore per Elisabetta

Oggi in torteria abbiamo avuto un bellissimo evento: un corso di cucina tenuto da una mia carissima amica e grande fodblogger: Elisabetta Cuomo Elisabetta ha preparato e ci ha insegnato il babà napoletano. Lei vive in un posto splendido, Vico Equense, gioiellino attaccato a Sorrento; è una donna dai mille talenti, bella e generosa, con un’affettività molto accogliente, sa molto di sé ma non lo espone in vetrina, le sue tante qualità sono conservate in una madia, insieme alle farine, all’agar agar, ai cioccolati più preziosi, ai cannelli per le cartucce, ai quaderni su cui appunta tutte le sue sperimentazioni

Tra i discenti del corso c’è un uomo attraente, leggermente morbido sui fianchi, i capelli folti e brizzolati, che pare ammagato dal fare di Elisabetta, la segue passo, le fa mille scatti mentre lei impasta sapientemente il babà, crea il velo, spiega alla classe il significato di incordare, le differenze tra le farine, tra i burri, i lieviti etc. Fulvio, questo il nome dell’uomo, le fa mille domande che tradiscono una conoscenza approfondita della materia, catturando così l’attenzione di Elisabetta, attratta dal binomio bellezza e sapienza.

Tra una domanda e l’altra viene fuori che Fulvio è un giornalista enogastronomico, particolarmente interessato all’arte di Elisabetta e le propone di scrivere a quattro mani un libro di tutte le sue ricette. Lei tentenna, ma io pretendo che accetti, i talenti vanno messi a frutto. Naturalmente la prima copia sarà mia, con tanto di autografo.

Intanto sbirciate qui:

Untitled 1

In torteria

Stamattina in torteria entrano due tipi, un uomo e una donna. Lei una donna molto bella, non giovanissima più vicina probabilmente ai 50 che ai 40, vestita molto accuratamente, occhi grandi, molto truccati, un po’ da bambola, un po’ da diva, si vede che oltre alla sua bellezza fisica ha bisogno di esibire qualcos’altro, ha un mondo che le esplode dentro. Lui è timido, non particolarmente bello, vestito in maniera molto approssimativa, senza particolare cura, si ha l’impressione che si accontenti di vestiti puliti, un sorriso particolare, incisivi da bambino, grandi, larghi, gli occhi enormi, una cava di malinconia quieta.

Sì siedono uno di fronte all’altra. Lei è visibilmente innamorata di lui. Ha gesti ed eloquio asciutto, senza mielosità, eppure gli occhi sono così colmi, parlano. Lui è gentile, senza essere affettato, forse è lontano da lei, ma ama i suoi modi, la guarda ammirato, si comprende che non capisca perché lei lo trovi interessante, ma si gode il momento. Si parlano a tono basso, senza concitazione, ma attenti a quel che dice l’altro, forse sono già amanti, forse lo diventeranno oggi.

Vorrei sedermi con loro, fare domande, chiarire i loro sospesi, invitarli ad amarsi, visto che è l’unico modo per combattere l’amaro della vita. Taglio una fetta generosa della mia torta segreta, quella che fa innamorare per sempre, e gliela porgo – offre la casa, un sorriso sornione ma non invadente, così dico – una cioccolata calda all’arancia, poi mi eclisso, non sta bene spiare le persone. Però che darei per ascoltare i loro discorsi

La pupara

Da giovane facevo la pupara. Sapete cos’è, vero? E’ un’arte che ho imparato da mio padre Nino. Mio padre era il più bello degli uomini. Ma bello assai, non perché parlo da figlia. Le femmine che passavano davanti al nostro banchetto ci lasciavano sempre un po’ di occhi e di cuore. Tutte in tiro, il loro vestito migliore, si tiravano un po’ il bordo del vestito perché la scollatura andasse giù e catturasse l’occhio di mio padre. Ma quello, che discendeva direttamente dagli dei normanni, biondo, alto e con le gemme di mare, non aveva occhi che per mia mamma, Amalia.

E se mio padre era bello, mia madre era una madonna. Una madonna nera, con quella pelle scura, da vera siciliana, quei capelli neri e ricci, una perla del mediterraneo, poteva essere pure marocchina tanto la pelle era cotta di sole. Mio padre era un uomo dalle vedute larghe, non l’assillava con la gelosia, come gli altri uomini siculi, troppo la venerava e sapeva nel cuore della sua fedeltà. Seguiva con lo sguardo i suoi fianchi sinuosi che allargavano l’aria e strappavano gli altri uomini alle loro faccende. Più d’uno, forse mille, avrebbe fatto pazzie per lei, ma tutti rispettavano Nino, uomo d’un pezzo, poche parole, ma autorevole. La gente capisce sempre chi è il capobranco e sta a cuccia. Io assomigliavo assai ad Amalia, ma ero pallida, e poi ero così gracile, i seni inesistenti, mentre lei era prorompente, la scena era tutta sua quando appariva, aveva il busto delle ancelle e la grazia delle muse, io le ero devota come a una madonna veramente, e pure quando mi prendevo uno scappellotto non mi ribellavo, tanto poi lei arrivava dopo due minuti, mi arruffava i capelli e mi soffiava in faccia, mi faceva ridere e diventavamo di nuovo amiche.

A mia madre piaceva cantare. Cantava sempre mentre mio padre costruiva i pupi. E cantava quando mio padre mi insegnava a costruirli. La sua voce era un po’ roca, una voce che dà languore agli uomini. Nino fingeva di fissare i ferri del mestiere, ma era tutto languido alla voce che gli aveva rubato il cuore, e pieno d’orgoglio che tutta questa prosperità fosse per lui e lui soltanto